GIUSEPPE CENTONZE
«Generosa» di Matteo Rispoli
(Gennaio-Giugno 2008)
Il canonico primicerio stabiese Matteo Maria Rispoli (1822-1896) fu un «dotto e pio sacerdote» —cosí lo definí mons. Francesco Di Capua—, che si adoperò non poco, con scrupolo ed entusiasmo insieme, per la chiesa e la città di Castellammare.
Tra le sue continue iniziative per favorire il risveglio della religiosità locale, rimase memorabile quella svolta per ottenere l’incoronazione, l’ufficio e la messa propria della Madonna di Pozzano.
Per obbedire all’invito del vescovo mons. Petagna, che auspicava «che il Suo clero si mostrasse sempreppiú operoso [...] benanche colla penna», scrisse il «racconto» Generosa, ossia Stabia al secolo nono (1859), di cui ci occupiamo qui, e i dialoghi moraleggianti Felicetta (1861), Alfredo (1862), L’incognito (1863).
Fondamentale fu la sua non facile opera di scavo dell’area christianorum sotto la cattedrale, durante i lavori di ampliamento dell’edificio. Egli stesso ce ne lasciò una significativa testimonianza in una lettera del 1880 al Direttore delle Antichità Fiorelli: «Nella esecuzione degli scavi per le nuove fabbriche della Sagrestia e Canonica fui scrupoloso a conservare anche i piú piccoli rottami di creta, finanche ad essere posto qualche volta da chi non si intende, in ridicolo. Io però sono contentissimo d’aver conservato tutto che ora è in deposito nell’Episcopio, e che io considero come un tesoretto stabiano».
Don Matteo si distinse per altre iniziative e attività. Per ulteriori notizie sulla sua interessante figura rinvio alla mia Premessa alla ristampa anastatica di Generosa (2007) da me curata per la Collana di reprint «Post Fata Resurgo» del Rotary Club Castellammare di Stabia e realizzata dall’editore Nicola Longobardi. Devo qui aggiungere il documento con la data di morte del Rispoli, che riuscii a trovare, mantenendo fede al mio intento di proseguire la ricerca, nel Libro dei Morti presso la Parrocchia del S. Salvatore a Scanzano, quando Generosa era già in stampa, e che comunicai pubblicamente il 14 giugno 2007 presso l'Hotel Stabia in Castellammare, durante la sua presentazione: «Nel dí 13 gennaio 1896, il Rev.mo Can.co Primicerio della Cattedrale, Rev.mo Mons. D. Matteo M.a Rispoli fu D. Giovanni e D. Agnese de Rosa, di anni 73, munito dei SS. Sacramenti, morí, e fu sepolto nel Camposanto».
Anche per Generosa rinvio alla citata ristampa anastatica, precisamente alla bella Prefazione (I misteri di Stabia) di Matteo Palumbo.
Qui mi limito a fare solo qualche cenno all’opera e a qualche sua peculiarità, per orientare il lettore.
Si tratta di una storia avventurosa ambientata a Castellammare ai tempi di S. Catello (il IX secolo per il Rispoli che segue il Milante e il Caracciolo, primo editore nel 1626 della Vita S. Antonini dell’Anonimo Sorrentino), quella della bella fanciulla Generosa ambita e fatta rapire dal prepotente ‘gentiluomo’ Claudio; storia intrisa di inganni e calunnie, ma fortunatamente giunta a buon fine, con un generale ravvedimento, grazie all’opera del santo.
Generosa è per l’autore non un «inutile romanzo» né un’«istoria Stabiana», e tuttavia rientra pienamente nei canoni del fortunato romanzo storico ottocentesco, genere che ben si prestava alle esigenze educative del secolo, anche a quelle di apostolato della chiesa che poteva in maniera nuova raggiungere un vasto pubblico.
Il libro si fa apprezzare perché educa, oltre che alla santità, oltre che alla virtú e ai buoni costumi, anche alla difesa dei deboli, alla giustizia e al bene comune. Si fa anche apprezzare per la tecnica narrativa, in quanto —nonostante le evidenti reminiscenze soprattutto manzoniane, come nel caso del rapimento della protagonista— lo si legge con piacere dalla prima all’ultima pagina, grazie all’abile e agevole distribuzione del racconto e all’uso di immagini, parole e situazioni divertenti, e perché sa incuriosire il lettore intorno agli esiti della storia narrata. Si fa poi apprezzare particolarmente dagli Stabiesi per l’ambientazione, che rende l’opera di indubbio valore storico; infatti i luoghi dell’azione, oggi spesso trasformati, vengono oltre che percorsi, anche descritti e corredati di importanti notizie.
Il lettore accorto saprà riconoscervi, al di là di qualche segno di fretta e dei soliti refusi, i caratteri positivi e nuovi (ad es., lo stesso linguaggio che, pur poco levigato, è arricchito e non certo impoverito da elementi popolari e locali, di sapore anche teatrale, che ‘modernamente’ si addicono a un’opera ambientata a Castellammare e intrisa di napoletanità) e non cadrà nell’errore di istituire un confronto, per quanto attiene ai contenuti e alla lingua, coi Promessi sposi, anche se il romanzo del Manzoni è tenuto spesso presente dal Rispoli.
Vale la pena riportare parte della recensione apparsa ne «La Civiltà Cattolica» (n. 314 del 9 aprile 1863): «Un libro di lettura amena ad un tempo ed istruttiva; che dà pascolo uguale all’immaginazione, all’intelletto ed al cuore; che mentre ha l’aria di sollazzarvi riesce ad edificarvi: un tal libro è non solamente un bel lavoro letterario, ma una buona opera di zelo. [...] Il racconto procede ingegnosamente vario, e nella sua varietà ancor semplice e naturale. Questi pregi ci fanno sperare lavori nuovi di simil genere da una mano cosí abile a dipingere».
Del resto, il Rispoli stesso afferma nella Prefazione: «ecco venir fuori, quasi evocata dal patrio amore, questa mia povera Generosa [...] come tipo del vivo desiderio di chi sente pel pubblico bene».
Il forte amore del Rispoli per la sua città emerge chiaramente proprio nei passi che la descrivono, per lo piú all’inizio dei capitoli. Ne riportiamo alcuni, interessanti per vari aspetti, coll’intento di spingere a leggere Generosa e a rivalutare la figura del suo benemerito autore, che esortò a occuparci della nostra storia, ad amare il nostro paese, a praticare la giustizia, a impegnarci per il bene comune, da costruire rispettando gli insegnamenti della chiesa.
Nel cap. I, egli descrive brevemente Visanola, dove immaginava avesse abitato la famiglia di S. Catello, ed accenna anche alla vicina chiesa di Porto Salvo:
«Nella parte occidentale di Castellamare, lungo la via che conduce al real cantiere sulla destra in riva del mare avvi una chiesa dedicata a Maria Santissima di Porto Salvo opera recente, fabbricata per rimpiazzarne un’altra sotto il titolo del Purgatorio esistente in mezzo a quel largo ora detto della Cristallina, la quale fu diroccata perché cadente; questa ora è mantenuta con divoto culto dalla pietà de’ marinari e pescatori. A rimpetto l’ingresso principale vi è praticato un viottolo che salendo mena ad un diruto castello, sulla via regia, che da Pozzano mena a Quisisana, questa via fu una delle opere di Francesco I. Il viottolo traversa un gruppo di abituri e casucce, e vien detto Visànola. Se ora qui non si mirano che case povere ed oneste nel nono secolo erano nobili e cavalleresche abitazioni».
Nel cap. II descrive l’«incantevole» sito di Quisisana (dove il giovane Claudio incontra e s’invaghisce di Generosa e, disprezzato, giura vendetta), facendo un misurato elogio dei Borbone:
«I Monarchi tutti han prescelto per loro delizia Quisisana ne’ mesi estivi, ma Francesco I, di santa memoria, mostrò segnatamente il suo trasporto per questo sito, ingrandendo la casina, il boschetto ed i viali, e fino a pochi anni dietro dal primo cancello fino al piccolo atrio innanzi al portone miravasi un magnifico grottone alto e spazioso coverto di viti, rose e fiori rampicanti, che poi fu diroccato perché corroso dal tempo, ed invece fu formato quell’ameno ed aprico viale che ora mirasi abbellito per ordine del regnante Monarca l’Augusto Ferdinando II (D. G.), il quale mostrando sempre piú la sua reale munificenza e predilezione per questo sito come per la città tutta ne ha ingrandito la casina, di fianco vi ha aperto una regia cappella arricchendola di arredi ed utensili sacri sotto la cura di un regio cappellano; dalla parte superiore della casa vi ha formato un bellissimo giardino ornato di fiori di praterie e di fontane, ed ogni anno quivi si riconduce per piú mesi con tutta la real Famiglia per averne sperimentato i benefici influssi dell’aria balsamica».
Interessante il capitolo successivo perché il Rispoli, a proposito della cosiddetta Scuola Cavaiola (un’altura nel territorio di Pimonte e prossima al Faito, nei cui pressi abitava il perfido guardaboschi Tiberio, che odiava a morte il novello sacerdote Catello, non essendo riuscito a veder prete anche suo figlio), riporta antiche credenze popolari, seguite dalle sue esplicite considerazioni:
«un colle sulla città di Pimonte e propriamente vicino alla porta di Faito che chiamasi comunemente Scuola Cavaiola, attesoché gli abitanti circonvicini narrano ne’ discorsi de’ loro pregiudizi domestici esser quivi un’assemblea di spiriti maligni, che or sotto la figura di animali ed or sotto quella di uomo essere stati veduti le mille volte con spavento dalla loro credula e sciocca fantasia. [...] sciocchezze, conseguenza della ignoranza e semplicità degli abitanti, la quale mano mano dileguandosi non a guari da noi è sparita per opera della sana logica».
E piú avanti, immaginando che durante l’ordinazione sacerdotale di S. Catello, la sua famiglia avesse largamente aiutato moltissimi bisognosi di ogni condizione ed età con «vitto, abito, moneta», rimprovera con fermezza le ben diverse usanze dei suoi contemporanei:
«Costume santo e religioso che oggi dovrebbe chiamarsi in pratica nelle festività religiose, anziché con sistema vandalico diffondere danaro per mortaletti, musiche che sanno all’intutto del profano, inviti con vestiture scandalose e modi sacrileghi nelle chiese, complimenti anche ne’ dí di digiuno, liquori bevuti fino all’ebbrietà, e pranzi a parassiti intemperanti... cose tutte che vanno alla fin fine a terminar sempre con profanare le sacre funzioni, seminare discordia, critica, odi, inimicizie e malumori in un secolo che si vuole illuminato..!».
Nel cap. IV egli parte dal castello angioino, per poi accennare all’antica cattedrale e ai ritrovamenti di Faiano, rivelando già il suo interesse per l’archeologia, che piú tardi l’avrebbe coinvolto profondamente:
«A chi dalla montagna di Quisisana muove verso la collina di Pozzano, sulla destra rimpetto il cancello che mena ne’ reali boschetti mira un diruto castello, opera del secolo XIII [...] i cui avvanzi attestano tuttora la solidità della costruzione, ché facendo resistenza alle intemperie e senza manutenzione alcuna si mirano tuttora; un altro era costruito sul lido e propriamente su quel sito che da un limpido fonte di acqua leggiera e freschissima che corre in abbondanza vien detto Fontana Grande. Amendue i castelli comunicavansi per sentiere coverto, le cui traccia esistono tuttora. Di questo però, e per le grandi strade ivi aperte e per gli edifizi posteriormente fabbricati non rimane avvanzo alcuno».
«Quattro secoli prima dell’edificazione di questa fortezza Angioina, a quel punto ove esistono le mura, le feritoie, la torre, i granai, e propriamente in quell’aia ove sono delle case sotterranee si innalzava il vescovado di Stabia, di cui non rimane altra memoria che il prospetto del tabernacolo in marmo che ora esiste attaccato alla parete dell’antisacristia nella cappella di S. Biagio nell’attuale duomo».
«[...] s’incamminarono nel piccolo giardino attiguo al vescovado, che corrispondeva a quello spiazzetto dentro l’attuale porticina del castello che fiancheggia la calata di Visanola sino a quel muro ov’è situata la cisterna, la quale serviva per uso della Chiesa; di fianco alla medesima eranvi due grandi olmi che gittavano ombra su due poggi laterali di marmo, i quali erano stati ritrovati nelle rovine del tempio gentile consagrato a Giano in poca distanza da questo luogo, e propriamente nella collinetta a ridosso la corderia reale, luogo ove esistono tuttora dei pochi avvanzi di quel tempio. E nel secolo scorso mercé l’opera di Monsignor Milante furono rinvenuti ancora degli affreschi, un mosaico, molti ruderi di colonne, dei tubi di piombo, un espiatorio in pietra ed altri oggetti di marmo, di creta, e di rame appartenenti al medesimo tempio di Giano, onde oggi chiamasi quella collinetta Faiano [...].
«Di fianco il cancello di ferro vicino a questa antica torre che mena ne’ reali siti di Quisisana vi è praticato un erto viottolo, che mena sopra un’antica chiesetta dedicata all’arcangelo S. Raffaele, su di quella collina chiamata monte S. Cataldo. Ove sorge questa chiesetta diruta ed interdetta, eravi un tempo una rustica volta nel cui fondo aveva la pietà dei montanari stabiesi piantata una croce, perché correva voce fra quelli abitanti avere ivi sentito lo spirito di un uomo ucciso in una rissa».
Nel cap. V trovano poi posto le notizie sulla Grotta di S. Biagio, dove Generosa in preghiera è gravemente minacciata da Claudio:
«Questo sotterraneo che ampio nell’ingresso va stringendosi in entro, e con lungo traforo che esce al ponte di S. Marco al luogo detto Carmiano, in detto sotterraneo Stabia gentile racchiudeva un tempio dedicato a Plutone. La pietà de’ cristiani stabiesi fin dal terzo secolo, abbattendo i monumenti della superstizione, vi fondò un tempio consecrato al santo vescovo [Biagio]. Una gran festa facevasi nel dí tre febbraio con una magnifica fiera, che si è protratta fino ad epoca a noi recente.
«Per le vicende poi de’ tempi e perché luogo mal sicuro, fu la chiesa interdetta e la immagine del santo trasportata nella cattedrale nella cappella prossima alla sacrestia».
Nel sesto quelle sulla Cristallina, che il Rispoli immagina fosse nel sec. IX la casa della giustizia con le prigioni:
«Lungo la strada che mena al real cantiere dalla parte del mare avvi un edifizio, che ora è occupato da’ soldati, che sono in guarnigione della città. Questa caserma porta il nome di Cristallina e dà benanche il nome all’ampio largo che ne precede l’ingresso. L’augusto Carlo III Borbone [...] fondò in questo luogo una fabbrica di cristalli piani che fu la prima del regno. Ma questa casa per l’amenità del sito, e perché prossima al cantiere, e sul lido del mare, trasportata altrove la fabbrica di cristalli, venne abbellita e resa piccola casina ad uso della real Famiglia fino a tempi a noi recenti. Poscia per mancanza di quartiere militare, e piú perché piccola fu data per uso ad una parte della guarnigione della città».
Non manca, nel cap. VIII, a proposito della collina di Varano (dove era la casa di Claudio e, vicino, la casetta in cui fu rinchiusa la rapita Generosa), il riferimento all’antica Stabia ivi sepolta in parte, scavata per volere di Carlo di Borbone e poi ricoperta:
«Dal lato orientale di Stabia elevasi un lungo e delizioso poggio sulla via che mena a Nocera e si estende fino alle vicinanze di Gragnano, sotto cui è sepolto l’Anfiteatro dell’antica Stabia ed altri monumenti della sua grandezza. Negli scavi incominciati nello scorso secolo per ordine del re Carlo Borbone, ivi furono rinvenute molte belle pitture a fresco che conservansi nelle sale terrene del real museo Borbonico con quelle di Pompei Ercolano ed altre antiche città distrutte del regno; quelle però di Stabia sono contrassegnate sulla cornice dalla lettera S. Inoltre vasi e lavori di bronzo, di argento, di oro, cammei ed altre molte pregiate antichità, che quantunque conservansi nel museo medesimo, pure confuse con quelle delle altre città non se ne può conoscere la provenienza che dall’inventario generale di quell’archivio.
«Sopra sí nobili antichità sepolte dal Vesuvio 79 anni dopo l’era cristiana, si distende ora un fondo arbusto con magnifica casa, feudo della nobile famiglia stabiana Gerace».
Nel cap. IX si accenna allo scoglio di Orlando «limite e confine delle due diocesi Stabiana e Sorrentina» (nella cui torre è portata Generosa nel vano tentativo di farvi celebrare le nozze da un curato ignaro) e a «quell’antica strada che da Stabia portava a Vico Equense, unico mezzo di communicazione fra le due città, via erta scabrosa e malagevole, unica però, mentre allora non era aperta quell’ampia rotabile ed amena che ora si mira sul lido del mare».
* * *
Il cap. X inizia con la descrizione e le notizie riguardanti il cosiddetto Torrione e il largo della California, dove il Rispoli fa bivaccare una guarnigione di soldati di passaggio:
«Lungo la via della marina tra la semicircolare che sporge in mare, ora detta California, e la banchina al lido del mare mirasi una casa isolata nel centro di un ampio spiazzo. Questa che ora è casa particolare era nel decimoquinto secolo una torre, opera di Ferdinando I D’Aragona, allorché egli fortificava Stabia contro Giovanni D’Angiò figlio di Renato. Ma quantunque Stabia fosse ben munita; pure fu presa ed occupata da Giovanni D’Angiò non per la forza de’ Francesi; ma pel tradimento del comandante Giovanni Gagliardi, e per la ribellione de’ cittadini Stabiani mal contenti del governo dell’Aragona. Il quale chiesto soccorso dal Pontefice Pio II riceveva un rinforzo di truppe comandate da Antonio Piccolomini, che nella settimana maggiore del 1461 scacciavano da Stabia gli Angioini francesi e dopo il sacco, tutta la città fu restituita a Ferdinando D’Aragona. La torre però in cui erasi rinchiuso il traditore Gagliardi sostenne l’assedio fino al 17 Febbraio dell’anno appresso. Questa torre è stata distinta dalle altre col nome di Torrione: da quel tempo fino al 1824, epoca in cui abbattuti gli avvanzi delle sue mura fu invertita in quella casa che ora si mira. Il largo d’intorno ad essa ha ritenuto il nome di largo del Torrione o Muraglione fino a circa sei anni or sono. Ora però viene chiamato largo della California dal perché ove ora mirasi la semicircolare solevano i cittadini buttarvi i calcinacci delle vecchie fabbriche tra i quali frugando un giorno alcuni facchini ritrovarono delle monete d’oro. Tanto bastò che tutt’i loro compagni accorsero credendosi rinvenirne delle altre, onde passò in proverbio, e fu quel luogo detto California, nome che tuttora ritiene.
«Nel nono secolo questo sito era fuori le mura di Stabia, la quale terminava in quell’arco dirimpetto a questo torrione, ove attualmente mirasi una statua del protettore della città chiamata la porta del Quartuccio».
Interessante ciò che si dice, nel capitolo successivo, del Collegio della Compagnia di Maria, già detto il Padiglione, l’edificio a fianco della Chiesa del Gesú (nel IX sec., secondo il Rispoli, una chiesetta consacrata alla Madonna, dove Catello si recava a pregare), anche per i riferimenti alle tante opere di pietà promosse dal vescovo Petagna:
«Di fianco a questa chiesa vi è un grande edifizio riconosciuto sotto il nome di Padiglione. Sí la chiesa che la casa fu fabbricata dalla pietà d’una famiglia stabiana e data a’ Padri della Compagnia di Gesú, che l’abitarono fino al 1785, epoca in cui la chiesa fu donata al Clero, ed il collegio fu invertito in Padiglione per gli uffiziali della Real marina.
«Ora dietro una domanda del Vescovo Monsignor Petagna la pietà e la munificenza sovrana di Ferdinando II la donava per fondarvi una congregazione di Sacerdoti Missionari, riconosciuta sotto il nome di Compagnia di Maria Immacolata, il cui scopo è non solo le sacre missioni, ma benanche la educazione de’ giovani, specialmente poveri. E fa duopo che io dica non esser questa la sola opera dello zelo instancabile del Vescovo Petagna; mentre la sua prima cura fu il miglioramento del Seminario; di poi aprí un ritiro di orfane ed un Penzionato sotto il titolo dell’Immacolata; ora s’è rivolto benanche alla cura de’ giovanetti. Tralascio di accennare e la Congregazione de’ nobili, e l’aumento delle Cappelle serotine, e di tante opere di pietà, frutti del suo zelo pastorale».
Nel cap. XIII si parla della vita e della fortuna del famoso generale Avitabile e del Belvedere che da lui prese il nome, posto all’inizio della collina di Salaro, la quale, estesa fino alla chiesa di S. Croce, era nel romanzo intera proprietà del padre di Generosa (questi vi abitava nell’edificio che sarà convento dei Domenicani e, nell’Ottocento, ospedale militare):
«Di fianco al poggio di Varano dalla parte occidentale s’erge maestoso qual suo emulo il Belvedere Avitabile, diviso dal primo dal torrente Cannitiello sulla cui destra avvi la strada di Scanzano, e quella di Gragnano sulla sinistra. Un tal poggio viene ora conosciuto sotto il nome di Avitabile, mentre prima era detto di Salaro, dal perché fu acquistato dal Generale Avitabile... Ecco un uomo memorando ed illustre di cui il mio lettore vorrà certamente far conoscenza; essendosi detto molto sul suo conto, e specialmente la calunnia e l’invidia hanno parlato non poco.
«D. Paolo Avitabile nato in Agèrola il dí 25 ottobre 1791, giunse con i suoi meriti e valore ad essere I Tenente di Artiglieria in Gaeta. Il suo carattere vivace e marziale lo spinse a tentare la sua fortuna nella Persia; ove giunse ad ottenere da quel Re Fat-Alí-Scià il grado di Colonnello dell’Armata per istruire quelle truppe a manovrare alla maniera Europea, e ridurle all’organizzazione e disciplina d’Europa, sotto il comando però del figlio del re Mahumet-Elí-Mirzà.
«Riuscito in questo mirabilmente, passò l’Avitabile nel 1827 a servire il Re di Lhaor nell’Indostan Ruget-Sing in qualità di Generale dell’Artiglieria e della Fanteria da cannoni. Le sue bravure e fedeltà gli ottennero da questo stesso re dopo quattro anni il grado di Governatore del Visir-Abat e poi benanche di Pengiab. Ruget-Sing per dare un attestato al valore dell’Avitabile ed alla sua fedeltà fece coniare una medaglia commemorativa dei grandi servigi sí militari, che amministrativi resi al governo di lui.
«Dopo 28 anni circa di servizio militare prestato con valore e coraggio, ritornò alla sua terra natale con un milione circa di ducati, e piú con i decorosi titoli e gradi di Tenente Generale e Governatore del Visir-Abat, e del Pengiab, Cavaliere della Legione di Onore e di S. Ferdinando del Merito, Commendatore dell’ordine di Durani, e di Ruget-Sing, Gran Cordone dell’ordine del Leone e del Sole di Persia, Gran Cordone dei Due Leoni e della Corona di Persia, Gran Cordone della Stella Brillante del Pengiab,. ec...
«Al suo ritorno, la Regina d’Inghilterra gli regalò una magnifica spada ingemmata.
«Il re dei Francesi l’onorò col dono di due coppe di finissimo lavoro di argento ed oro.
Il nostro Augusto Sovrano Ferdinando II (D. G.) non solo gli conservò i suddetti titoli, ma l’onorò benanche di preziosi doni.
«Comeché il Generale Avitabile morisse in Agerola il dí 28 marzo 1850, pure amava il soggiorno di Salaro, che chiamò Belvedere Avitabile.
«In quel punto ove attualmente mirasi un gran fabbricato, eravi prima una torretta opera degli Angioini, diroccata ed invertita in casina, che per la ridente posizione del luogo fu comprata ed ingrandita a capriccio del Generale Avitabile».
Sembra evidente che il nostro canonico fosse rimasto affascinato dalla figura ‘romantica’ del «memorando ed illustre» agerolese, che da cannoniere dell’esercito borbonico era diventato generale e poi governatore del Peshawar, offrendo il suo servizio in difficili zone dell’Asia ancora oggi tormentate da guerre e guerriglie sanguinarie. Egli riteneva che del discusso personaggio «specialmente la calunnia e l’invidia hanno parlato non poco», ma non poteva certo sapere che ancora oggi in quei paesi a noi noti per i loro feroci guerrieri, dove l’Avitabile aveva domato spietatamente le ribellioni, ne sarebbe rimasto il terribile ricordo, tanto che in Afghanistan le donne mettono paura ai loro bambini facendo il suo nome: guarda che viene Abu Tabela! (sul generale Avitabile cfr. S. Malatesta, Il napoletano che domò gli afghani, ed. Neri Pozza, 2002 e 2007).
Nel cap. XIV il Rispoli scrive dell’antica Chiesa di S. Francesco costruita da Carlo II d’Angiò di fronte alla Cattedrale (nel sito dove egli fa avvenire l’elezione di Catello a vescovo, nonostante i tentativi di Claudio per impedirlo) e diroccata nel 1842, della quale resta una sola grande cappella, nota come l'Oratorio:
«Di fianco al Seminario Diocesano rimpetto la Cattedrale miransi gli avvanzi d’una grande chiesa opera di Carlo II d’Angiò; il seminario medesimo n’era il monastero, prima tenuto da’ Basiliani, poscia da’ Teresiani e quindi da’ Riformati; e nel 1819 passati questi nel convento soppresso de’ Cappuccini lungo la strada Quisisana fu dato a Monsignor D. Bernardo della Torre per inventirlo in Seminario, ciò che poi eseguí il suo successore Colangelo, e infine portato a compimento da Monsignor Petagna con grandioso progetto!
«Questa Chiesa, col suo maestoso campanile quasi simile in altezza e forma a quello di Pozzano, fu diroccata nel 1842 perché cadente; e quantunque distrutta nella parte principale pure se ne conserva una grandiosa cappella laterale riconosciuta sotto il nome di Oratorio, conservata mercé lo zelo e le cure indefesse de’ due fratelli Giovan Giuseppe e Catello Raffaele Longobardi, l’uno ora Vescovo di Andria, l’altro Arcidiacono del Capitolo della Cattedrale di Castellamare amendue modelli di zelo sacerdotale ben noti per la loro scienza e prudenza.
«Oltre a questa, molte chiese di questa città piú non esistono mentre nel 1740 se ne contavano 38, con vari conventi di Domenicani, Cappuccini, Riformati, di S. Giovanni di Dio, Gesuiti, Paolotti, Agostiniani ed uno ospizio de’ Certosini, ora però appena n’esiste una minima parte».
* * *
Pagine bellissime sono dedicate al monte Faito, segnato dalla presenza di S. Catello. Nel cap. XV l’autore non nasconde la sua commozione nel descriverne la grotta (dove Catello si ritirava in preghiera e dove si recava per commissioni il nipote del guardaboschi che abbiamo conosciuto, anch’egli di nome Tiberio, giovane non leale coinvolto da Claudio nella calunnia e in un inganno ai danni di Catello):
«Questa grotta altro non presenta allo sguardo dello spettatore, che un incavo nel macigno molto aperto al di fuori; in entro, nell’interna parete vi è praticata una celletta per quanto un uomo possa entrarvi e giacervi, e vi si ascende per una scala di legno. Se là ti porti pel solo desiderio di vederla, non vale il disagio ed il pericolo per ascendervi; ma se mosso da sacro desio di baciare quella roccia che un eroe di nostra Chiesa santificò con la sua vita, consumata fra penitenze ed orazioni, ti senti talmente ispirato e commosso il cuore da ritornare qualche cosa meglio di quello che vi entravi.
«A poca distanza dall’antro sopraddetto v’è sottoposto uno stillicidio d’acqua pura e freschissima nell’està, ristoro prezioso in quelle solitudini per chi vi giunge assetato.
«Questo filo perenne di acqua dal vivo masso si vuole opera miracolosa della virtú di Catello; e fin da remotissimi tempi gli abitanti delle circonvicine città la bevono non solo per ismorzare la sete, ma benanche per un sentimento religioso, e si trasporta nelle case, somministrandola agl’infermi; e v’ha chi narra con devota credenza averla sperimentata efficace.
«In una balza sottoposta a poca distanza dalla grotta medesima su d’uno strato di pietra calcare si mirano impressi alcuni buchi, che tutti insieme formano le vestigia d’una zampa enorme, che il popolo Stabiano e i circonvicini chiamano Granfa del Diavolo, e vogliono esser stata impressa da lui, allorché riuscite vane le sue insidie, fu scacciato da Catello con l’opera dello arcangelo S. Michele e precipitato per la sottoposta valle di fianco alla scuola Cavaiola negli abissi».
Nel cap. XVIII l'autore manifesta tutto il suo entusiasmo di fronte all’incanto del panorama che si osserva dall’alto del monte su cui fu edificata da Catello la chiesetta di S. Michele, che accoglieva la miracolosa statua marmorea del Santo:
«è un incanto veramente che rapisce colui, che dopo circa cinque ore di salita giunge alla sommità più elevata di Faito, detto, monte Aureo o Gauro. Il più bel Panorama che possa offrire il nostro regno, se gli presenta allo sguardo. Da un lato il cratere del golfo di Napoli, circondato dalle isole di Capri, Ischia, Procida, e Nisite; dal capo Posillipo nel continente che va a finire nella punta della Campanella, Napoli e sue adiacenze, Portici, le Torri, Castellamare, Vico, Meta, il Piano, Sorrento e Massa che la costeggiano sul lido. Tutta la provincia di Napoli si offre alla vista con parte di Terra di Lavoro. In mezzo di tutte queste città il Vesuvio colla cima fumigante qual despota delle terre circonvicine domina le distrutte Ercolano e Pompei. Dalla parte opposta, il golfo di Salerno, dalla Licosa a Massa con tutte le città di quella vasta provincia e gli avanzi di Pesto in lontano. Fra un golfo e l’altro, la catena de’ monti Sorrentini si osserva, come direbbero i moderni geografi a volo di uccello.
«Questo monte poi è un vivo masso, che si eleva circa tre quarti di miglia sul livello del mare, e termina in un cocuzzolo a tre punte. In quella di mezzo, si mira oggi una chiesetta di fabbrica, fondata fin dal nono secolo; ma più volte riedificata, perché distrutta nel corso di dieci secoli, dal gelo, da’ venti, dalle intemperie, e dall’edacità del tempo. Questa che ora mirasi di fabbrica fu per la prima volta innalzata di legno. Tant’era la premura di chi la costruiva, portarla a compimento, ed ubbidire la voce dell’arcangelo S. Michele, che la chiedeva. Sul maggiore altare avvi una nicchia, ove mirasi una statua del S. Arcangelo in marmo».
Tralasciamo le considerazioni del Rispoli sul miracolo della trasudazione della statua e l’importante, ampia, particolareggiata descrizione che egli fa poi, nel cap. XIX, del pellegrinaggio e dei riti in occasione della festa in onore di S. Michele, per le quali rimandiamo alla Spigolatura I pellegrinaggi al Faito e il miracolo di S. Michele, apparsa sui nn. 110 e 111 (luglio-settembre 2006) de «L’Opinione di Stabia». Diciamo qui che nel romanzo, proprio un paio di giorni dopo la festa della Dedicazione della chiesa, il 4 di agosto, si pongono l’arresto del vescovo Catello e il suo trasporto a Roma.
Passiamo al cap. XX, dove si parla del Caporivo, di Valacaia e dell’alluvione del 1764 che provocò gravi danni e morti nei paesi vicini, ma non a Castellammare per intercessione di S. Catello:
«Tra la salita di Quisisana, e quella che mena a Scanzano vi è un rivo, che dà il nome a quel piccol largo di Castellamare detto Caporivo. Questo torrente che raccoglie le acque delle montagne a ridosso la città passa per una valle sottoposta alla chiesetta della Sanità, chiamata Valacaia, nome composto dalle due parole latine: Villa-Caji, perché ne’ tempi dell’antica Stabia, un tale per nome Caio, di cui s’ignora l’origine aveva qui una magnifica villa devastata dalla frequente piena delle acque, che scendono da’ monti; e qualche avvanzo rimasto fu interamente devastato e distrutto da una forte alluvione avvenuta nel 18 gennaio 1764.
«Questa inondazione minacciava subbissare tutta la città, e gli abitanti si ebbero per perduti mentre le acque giunsero a livello del secondo piano delle case. Nelle comarche adiacenti a Castellamare si ebbero a deplorare molti infelici soffocati dalle acque, schiacciati dagli edifici caduti, e sepolti dalle frane screpolate dai monti. In questa città però non si soffrí danno alcuno, né delle persone, né delle proprietà per opera prodigiosa del patrocinio del Santo protettore. Fino a circa 20 anni or sono eranvi de’ cittadini i quali attestavano aver veduto coi propri occhi il Santo dalla cattedrale in cui era esposto di fianco all’altare maggiore, perché correva la vigilia della sua festività, uscir fuori e comandare alle acque di non nuocere alla sua protetta città; le acque ubbidienti alla voce scorsero giú nel mare senza recar danno alcuno. Checché debba dirsi di quest’apparizione, io al mio solito non intendo pronunziarvi giudizio. Quello che però è di certo, Castellamare fu la sola salva in questo flagello fra i danni comuni de’ luoghi circonvicini. Il Capitolo in ogni anno celebra una messa solenne votiva con l’inno Ambrosiano e la Benedizione del SS. alla quale assiste il Vescovo e tutto il popolo, in ringraziamento al Signore d’essere stati soccorsi per la intercessione del Santo Protettore.
«Ritorniamo al nostro rivo Valacaia. Ove attualmente non si mirano, che rupi e vigneti, un tempo erano abitazioni delle quali si è dispersa ogni traccia. Prima di entrare nell’alveo del torrente in sulla destra mirasi una Cappella riconosciuta sotto il titolo del SS. Crocifisso e del Nome di Maria, eretta nel principio del secolo XVII. Ivi conservasi un Crocifisso di legno antichissimo di circa un palmo e mezzo di dimensione, e di ottima scultura, per il quale il Signore si è benignato di concedere grazie, e la cui protezione si è avuta efficacissima per circa due secoli in casi urgentissimi. Avvi pure una effigie della SS. Vergine in atteggiamento di dispensar grazie, alla quale son divotissimi tutti gli abitanti delle case circonvicine e non v’è giorno in cui non accorrono i fedeli a domandar grazie».
Nel cap. XXI si accenna alle Torrette che si ammiravano sopra lo stabilimento delle acque e che prendevano il nome dal Gran Mogol, ossia dallo stabiese Catello Filosa, che ne era il proprietario:
«Sopra lo stabilimento delle acque minerali, dirimpetto la porta principale del Real cantiere miransi in un vigneto due torrette fabbricate dal cittadino di Castellamare Catello Filosa. Costui nato da onesta famiglia partiva dal nostro regno verso la metà del secolo scorso con oscuro nome, e la sua inclinazione lo portò nel Mogol ov’egli si diresse in cerca di prospera fortuna. Come fosse entrato in quel regno, e quali mezzi avesse adoperato per guadagnarsi la benevolenza di quel Monarca è a tutti ignoto, ed egli stesso ne fece un mistero. Certo si è che seppe talmente guadagnarsi l’affezione in quella terra straniera che addivenne milionario. Vi è chi dice: aver egli imparato in quelle milizie l’uso del cannone sopra lo affusto, avendo ivi trovato l’uso del cannone immobile. Il certo si è che ritornava ricchissimo col grado di Colonnello Portoghese, di Generale delle imperiali guardie del Gran Mogol e col decoroso titolo di Palaquin. Ritornato in Castellamare largí molto danaro per opere pie, e fece molti acquisti di case, e di terre e tra queste fu quel vigneto in cui miransi le suindicate torrette».
Anche sull’Annunziatella non manca, nel cap. XXIII, qualche riferimento degno di interesse:
«quel sito che oggi vien detto: l’Annunziatella da una piccola chiesetta ivi fabbricata dalla pietà di quella buona gente di campagna, in cui in ogni anno nella seconda domenica dopo Pasqua si fa una grande festa portando processionalmente d’intorno per quelle campagne una effigie esprimente l’Annunziazione della S. Vergine. Non solo da tutte quelle campagne vi accorrono i pietosi coloni, ma benanche da Castellamare, da Angri, dalle Torre ed altri paesi.
«Questo sito che ora presenta giardini e paludi traversate da una regia strada era tutt’altro negli antichi tempi, mentre quella parte che mirasi sulla sinistra andando verso Napoli era mare e spiaggia».
Alla fine della storia, Generosa è liberata, Claudio si pente, il vescovo Catello torna a Stabia discolpato e in odore di santità. Nel cap. XXIV, l’azione si svolge sull’isolotto di Rovigliano, dove Generosa decide di ritirarsi, lontano dal mondo, per consegnarsi interamente a Dio. Riportiamo solo un brevissimo passo che ci ricorda come a metà Ottocento l’isoletta non era abbandonata come lo è oggi:
«Al presente essa è fortificata per difesa del golfo con pochi cannoni, v’ha una caserma militare per poca guarnigione, la casa del custode, una polverista, ed una cappella».
Ci fermiamo qui, non senza riportare l’eloquente messaggio lasciato dal Rispoli agli Stabiesi, che costituisce l’explicit anche del libro:
«Tutto quello che si sa di certo delle virtù e della vita di questo Santo è quello che rattrovasi nella leggenda del suo uffizio approvata dalla Chiesa. Fuori di questa finora non anvi che congetture e monche tradizioni popolari, raccozzando io le quali affinché non si fossero disperse, né osando di spacciarle tutte come probabili ho creduto formarne il presente racconto.
«I miei voti sono, che i miei cittadini mossi e spinti da questo mio primo passo si dieno piú accuratamente a rintracciarne notizie, e con autentici documenti ne compiano una completa istoria, ritenendo questo mio piccol lavoro, solamente per quella parte che riguarda le notizie Stabiane e piú la Religione, e la morale, solo scopo per cui io scrissi.
«Lettore ora avrai ben capito cosa intendeva io di fare, quando evocava dal nono secolo questa mia povera Generosa.».
(Da «L'Opinione di Stabia», XII 122 – Gen.-Feb. 2008, pp. 18-20; XII 123 – Mar.-Apr. 2008, pp. 18-19; XII 124 – mag.-giu. 2008, pp. 18-19).
(Fine)
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