Inizialmente pensavo che a
Torino, di Castellammare, ci fossero soltanto il sottoscritto e il compagno
d’avventura Fortunato Setale, impegnato nello stesso lavoro, fino a quando non
mi capitò di recarmi, per lo svolgimento dei compiti d'istituto, in un palazzo di via Cibrario. Per poco non andai al manicomio.
Varcando il portone mi trovai da un momento all'altro catapultato in una realtà completamente diversa da quella che mi ero lasciato alle
spalle soltanto qualche metro prima.
Le voci che percepivo e che , non una, ma
tante, si rincorrevano all’interno di quella realtà, erano di gente che
parlavano il mio dialetto, quello di Castellammare di Stabia, e quando il portiere che mi
stava aspettando si rese conto che io ero un suo paesano, dal centro del cortile
grido a tutti: “L’ispettore è paisano nuosto. E’ de Scanzano!”
Le voci che
prima interloquivano in maniera evidente e rumorosa zittirono di colpo e i
volti appesi alle ringhiere, assieme ai panni messi ad asciugare, diventarono
tanti.
Odori di sugo, di verdure, di fritti. Dopo lo stupore, mille domande. Come mi chiamavo, a chi appartenevo, fino a quando non spuntò uno di loro che,
colpo di scena, mi conosceva.
Mi guardò con occhi sorridenti e increduli, come
per dirmi: “Ma non mi riconosci?” Poi quando mi disse il suo cognome
Sorrentino, mi sembrò impossibile di aver ritrovato Carlo e la sua chitarra,
sulla quale avevo composto qualche canzone giù al Centro sociale INA CASA del San
Marco.
Durante il servizio militare l’avevo perso di vista e non c'eravamo più sentiti ne visti, anche se attraverso una radio privata di Torino dove lavorava mi aveva cercato per propormi come autore e
collaboratore.
Dovetti accettare per forza un invito a pranzo e promettere di
ritornare con mia moglie a far loro visita. Cosa che avvenne regolarmente scambiandoci le visite.
Poi di nuovo persi anche se a due passi di distanza, presi dal nostro lavoro, dalle nostre fantasie.
Pubblicato su Il Libero Ricercatore nel 2010.
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