giovedì 20 settembre 2012

‘O caprettaro




Era ed è ancora un pastore, dove l’attività di pascolo viene ancora svolta, che conduceva nel comune di Castellammare  le capre al pascolo .

A Castellammare, oggi, è difficile trovarne uno anche nelle località periferiche della città che confinano con i Monti Lattari, monte Coppola e le zone circostanti  dove è ancora possibile trovare del verde da brucare.

Da ragazzo ne incontravo uno che con le capre si aggirava per Privati, Mezzapietra e alle pendici di Monte Coppola, Quisisana, alle Fratte, Pozzano, alla madonna della Libera.

I pastori erano forse due o tre o forse erano elementi della stessa famiglia che pascolavano sempre le stesse capre che nel transitare per le strade nella loro transumanza lasciavano per terra per ricordo i loro escrementi che rassomigliavano a olivette nere.

Certo i prodotti che derivavano dal latte, le ricottine, le formaggette o le caciottine stagionate o meno erano saporite. Il latte di capra non era tanto in voga come adesso. Solo raramente c’era qualche medico che ne prescriveva il consumo per i bambini svezzati che non tolleravano quello delle mucche.

Di pecore nella zona manco a parlarne. La carne di capretto invece andava di moda come ancora oggi nel periodo pasquale. Era buonissima. Quanto costava non lo so, ma sicuramente qualcosa in più della carne di vaccina e di maiale tenuto conto della produzione ridotta di capretti da macellare che, a sentir dire, erano prenotati per l’anno successivo quando veniva effettuata la consegna di quello macellato. Gli estimatori erano pochi, anche perché pochi avevano soldi da spendere.

Appresso al pastore c’era sempre un cane che lo seguiva guidando le capre nel loro percorso verso i luoghi abituali delle zone da pascolo.

Il pastore vestiva pantaloni di panno pesante in grado di affrontare rovi ed arbusti che non lasciavano scampo ad indumenti leggeri, una cerata con cappuccio per affrontare la pioggia, un bastone robusto che lo aiutava nei percorsi impervi sia nella salita che nella discesa e ai piedi scarpe pesanti chiodate e provviste di suola antiscivolo come quelle da cantiere o dei militari e qualche volta delle protezioni in pelle per le gambe. Sotto la giacca che aveva delle tasche enormi in grado di ospitare generi alimentari per tutta la giornata una camicia o un maglione nel periodo invernale e sotto d’estate e d’inverno una maglia di lana come se ne vedono ancora nei films western addosso ai cow boy.

Era generalmente una persona pratica e dall’occhio attento a non perdere di vista il suo gregge anche se l’aiutante, il cane, le teneva sicuramente a bada.Comandava il tutto con un fischio o con dei richiami verbali o gutturali ai quali le capre ubbidivano prontamente.

Di poche parole, salutava quelli che conosceva ma difficilmente si fermava a scambiare quattro chiacchiere. Prendeva gli orinativi annotandoli a mente e il giorno dopo o una settimana dopo, senza nessuna differenza o scusante era puntuale.

Sapeva più cose lui che tutto il vicolo assieme. Era una memoria vivente e quelle rare volte che si fermava raccontava storie che sbalordivano sia grandi che piccoli.
Se la sapeva cavare con le bestie e con la gente e dare consigli pratici utili quasi sempre. Portava agli amici sorbe odorose in segno di stima, sorbe che raccoglieva lungo i pendi della montagna raggruppandoli a grappoli per venderli o regalarli a chi gli era simpatico o gli ritornava utile. Quando maturano le sorbe da verdi diventavano rosse e quella macchia di colore diventava l’invidia anche dei vicini.

Quando le vedevamo passare per il nostro vicolo il divertimento era quello di imitarne il verso uguale sia per le pecore che per le capre ma gutturale per le prime e nasale per le seconde.
Un giorno arrivammo a conoscere anche il maschio che in napoletano si chiama “zimbaro”. Aveva delle corna con volte accentuate ed occhi vispi che scrutavano intorno per avvertire eventuali pericoli. Il pastore ci disse di starne lontani, ma fu come un invito a molestarlo correndo il rischio di essere presi a cornate o a testate.


Come ho detto, passava raramente ma se dovessi incontrarlo, anche dopo tanti anni che non lo più rivisto lo riconoscerei subito anche se non ne ricordo il nome. Era simpatico e scherzoso. Fu lui ad insegnarmi a costruire un piffero utilizzando un ramo fresco e diritto di una pianta che cresceva nei giardini che affacciavano sulla panoramica asportandone la corteccia senza romperla con la sola forza delle mani.

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