Era ed è ancora un pastore, dove
l’attività di pascolo viene ancora svolta, che
conduceva nel comune di Castellammare le capre al pascolo .
A Castellammare, oggi, è difficile
trovarne uno anche nelle località periferiche della città che confinano con i Monti Lattari, monte Coppola e le zone circostanti dove è ancora possibile trovare
del verde da brucare.
Da ragazzo ne incontravo uno
che con le capre si aggirava per Privati, Mezzapietra e alle pendici di Monte Coppola,
Quisisana, alle Fratte, Pozzano, alla madonna della Libera.
I pastori erano forse due o tre o
forse erano elementi della stessa famiglia che pascolavano sempre le stesse
capre che nel transitare per le strade nella loro transumanza lasciavano per
terra per ricordo i loro escrementi che rassomigliavano a olivette nere.
Certo i prodotti che derivavano
dal latte, le ricottine, le formaggette o le caciottine stagionate o meno erano
saporite. Il latte di capra non era tanto in voga come adesso. Solo raramente c’era
qualche medico che ne prescriveva il consumo per i bambini svezzati che non
tolleravano quello delle mucche.
Di pecore nella zona manco a
parlarne. La carne di capretto invece andava di moda come ancora oggi nel
periodo pasquale. Era buonissima. Quanto costava non lo so, ma sicuramente
qualcosa in più della carne di vaccina e di maiale tenuto conto della
produzione ridotta di capretti da macellare che, a sentir dire, erano prenotati
per l’anno successivo quando veniva effettuata la consegna di quello macellato. Gli estimatori erano pochi, anche
perché pochi avevano soldi da spendere.
Appresso al pastore c’era sempre
un cane che lo seguiva guidando le capre nel loro percorso verso i luoghi
abituali delle zone da pascolo.
Il pastore vestiva pantaloni di
panno pesante in grado di affrontare rovi ed arbusti che non lasciavano scampo
ad indumenti leggeri, una cerata con cappuccio per affrontare la pioggia, un
bastone robusto che lo aiutava nei percorsi impervi sia nella salita che nella
discesa e ai piedi scarpe pesanti chiodate e provviste di suola antiscivolo
come quelle da cantiere o dei militari e qualche volta delle protezioni in
pelle per le gambe. Sotto la giacca che aveva delle tasche enormi in grado di
ospitare generi alimentari per tutta la giornata una camicia o un maglione nel
periodo invernale e sotto d’estate e d’inverno una maglia di lana come se ne
vedono ancora nei films western addosso ai cow boy.
Era generalmente una persona
pratica e dall’occhio attento a non perdere di vista il suo gregge anche se l’aiutante,
il cane, le teneva sicuramente a bada.Comandava il tutto con un fischio o
con dei richiami verbali o gutturali ai quali le capre ubbidivano prontamente.
Di poche parole, salutava quelli
che conosceva ma difficilmente si fermava a scambiare quattro chiacchiere. Prendeva
gli orinativi annotandoli a mente e il giorno dopo o una settimana dopo, senza
nessuna differenza o scusante era puntuale.
Sapeva più cose lui che tutto il
vicolo assieme. Era una memoria vivente e quelle rare volte che si fermava
raccontava storie che sbalordivano sia grandi che piccoli.
Se la sapeva cavare con le bestie
e con la gente e dare consigli pratici utili quasi sempre. Portava agli amici sorbe
odorose in segno di stima, sorbe che raccoglieva lungo i pendi della montagna
raggruppandoli a grappoli per venderli o regalarli a chi gli era simpatico o
gli ritornava utile. Quando maturano le sorbe da verdi diventavano rosse e
quella macchia di colore diventava l’invidia anche dei vicini.
Quando le vedevamo passare per il
nostro vicolo il divertimento era quello di imitarne il verso uguale sia per le
pecore che per le capre ma gutturale per le prime e nasale per le seconde.
Un giorno arrivammo a conoscere
anche il maschio che in napoletano si chiama “zimbaro”. Aveva delle corna con
volte accentuate ed occhi vispi che scrutavano intorno per avvertire eventuali
pericoli. Il pastore ci disse di starne
lontani, ma fu come un invito a molestarlo correndo il rischio di essere presi
a cornate o a testate.
Come ho detto, passava raramente ma se dovessi incontrarlo, anche dopo tanti anni che non lo più rivisto lo riconoscerei subito anche se non ne ricordo il nome. Era simpatico e scherzoso. Fu lui ad insegnarmi a costruire un piffero utilizzando un ramo fresco e diritto di una pianta che cresceva nei giardini che affacciavano sulla panoramica asportandone la corteccia senza romperla con la sola forza delle mani.
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