Soltanto
qualche anno appresso, per gli uomini, si passò alla fascia nera al braccio e
successivamente un nastrino nero all’occhiello della giacca o del cappotto o ancora più esemplificativamente all'adozione di un bottone metallico di misura rilevante, ricoperto di tessuto nero appuntato sulla giacca o con una spilla da balia o su uno degli spigolo del collo della giacca..
Generalmente
per il recupero di un abito si adottava prima la tecnica del rivoltarlo, ma non
sempre era possibile, quando le stoffe presentavano disegni che venivano
stampati solamente su una sola faccia.
Le
donne di casa dopo i primi tentativi su indumenti meno importanti erano
diventate delle vere esperte arganattrici o tintore per cui si andò avanti
negli anni per diverso tempo fin quasi alla soglia degli anni sessanta.
Non
era difficile organizzarsi in quanto le donne, se gli uomini sono bravi e non
vanno a insidiare le vicine di casa, si danno sempre una mano per
Per
fissare il colore serve il calore e un pentolone di 10 o venti litri all’epoca
si trovava in quasi tutte le case. Quelle che non ne erano provviste godevano
dell’assistenza della vicina che al momento dell’acquisto aveva dichiarato la
sua disponibilità anche alle vicine di casa.
Certamente
ogni tessuto voleva le sue accortenze, ma questo si verificò quando arrivarono
sul mercato gli indumenti realizzati con filato sintetico.
I
capi adoperati dalla gente del popolo era generalmente costituiti da fibre
naturali e prima di essere cuciti le stoffe venivano bagnate per evitare il
fenomeno del restringimento al primo e anche al secondo lavaggio.
Dopo
la tessitura le stoffe venivano inamidate per conservale fino alla vendita e
anche per farle sembrare più belle e allungarle nelle loro dimensioni
effettive.
Le
buste col colorante si acquistavano nei negozi che vendevano colori o presso le stesse lavanderie che praticavano la coloritura per conto terzi.
Si
riempiva il pentolone per tre quarti e quando l’acqua bolliva lo si toglieva
dal fuoco appoggiandolo per terra in modo da averlo a portata di mano in
prossimità di aperture per areare il locale o addirittura all’aperto. Qualcuna,
prima di procedere, vi immetteva delle striscioline di stoffa per saggiare l’intensità
del colore che era stato disciolto nell’acqua.
Se il risultato era gradito si
procedeva con il vestito da tingere lascindovelo per il tempo consigliato dalle
istruzioni scritte sulla busta dal fabbricante del prodotto che forniva anche
le istruzioni per il lavaggio successivo alla fissazione del colore.
Non
tutte si rendevano conto a primo acchitto che l’abito era stato tinto. Se ne
rendevano conto quando incominciava a scolorire sprecando le risatine di
compianto.
Nel
tempo la cosa andò a finire senza clamori e ancora oggi qualche lavanderia, il
cui primo nome fu quello di tintoria, continua a farlo come pratica inversa della
smacchiatura operata ormai con prodotti che nel tempo sono stati resi più
sicuri per i risultati attesi.
I
pentoloni, quelli di rame, sono rimasti come ricchezza delle famiglie e quelli
in alluminio, se erano di buona qualità in quanto a spessore, vengono adoperati
per bollire piccole quantità di conserve imbottigliate o alloggiate nei
barattoli di vetro di risulta di altre conserve familiari o industriali che
capita ancora di comprare.
Scrive
l’amico Raffaele Bracale che la sostanza inizialmente adoperata era l’alcanna
volgarmente détta arganetta (adattamento e diminutivo di arcanne= alcanna); da
arganetta si trasse il nome del mestiere. L’alcanna è un arbusto perenne con
fiori profumati e foglie ovate (fam. Borraginacee), da cui si ricava una
sostanza usata in tintoria e nella confezione di cosmetici e medicinali.
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