domenica 30 settembre 2012

Tranvia Castellammare di Stabia - Sorrento






Sintesi  da Wikipedia

La tranvia Castellammare di Stabia – Sorrento è stata una linea tranviaria  della  Campania, che univa la stazione FS di Castellammare di Stabia con Sorrento, attraversando quasi interamente la penisola sorrentina: inaugurata nel 1906, fu chiusa nel 1946, a seguito del prolungamento della Circumvesuviana da Castellammare di Stabia a Sorrento.

Storia [modifica]




Il tram a piazza Tasso a Sorrento

Da sempre, a causa della difficile orografia del territorio, la penisola sorrentina aveva sofferto dell'isolamento con il resto del napoletano, con il quale era collegata tramite una stretta e tortuosa mulattiera, che solo nel 1843 per volontà di Ferdinando II delle Due Sicilie, fu ampliata e percorribile solo con carrozze o a dorso di mulo. Tuttavia restava il problema dell'assenza di un collegamento veloce con Napoli: fu cosi che nel 1885, un industriale  francese, Giuseppe Haour, propose la costruzione di una linea tranviaria, che partendo da Sorrento, giungesse a Castellammare di Stabia, nella piazza antistante la stazione FS per proseguire, in treno, per Napoli.
Problemi di natura burocratica portarono nel 1903 l'industriale a cedere i diritti del progetto ad un consorzio di 34 persone, che aveva assunto il nome di Società per Azioni delle Tranvie Sorrentine: i lavori di realizzazione della linea, affidati alla ditta Roberto Scotto di Tella, proseguirono a rilento e l'inaugurazione avvenne il 20 gennaio 1906.
I tempi di percorrenza dell'intero percorso che era di 19,6 km, erano di un'ora e 36 minuti, con una cadenza di un tram ogni trenta minuti. Tra  Meta e Sorrento a si aggiungeva un servizio navetta tra , con una cadenza oraria tale che su questa tratta passasse un convoglio ogni quindici minuti.
La trazione era elettrica, a 600 Volt e due sottostazioni una a Meta, nei pressi del deposito e una a Castellammare di Stabia.
Il tram a Piano di Sorrento

(
I problemi finanziari portarono ad accantonare i progetti di prolungamento della tranvia dalla città stabiese verso la stazione SFMS di Torre Annunziata, per creare un collegamento con i comuni vesuviani e da Sorrento verso Massa Lubrense.



Il tram presso lo stabilimento termale dello Scrajo

Ne 1921 nel consiglio di amministrazione entrarono alcuni membri della SFSM: che  permisero di rimodernare il servizio. Tuttavia lo scoppiò della seconda guerra mondiale provocò, anche se non direttamente, numerosi danni alla linea. Il 6 gennaio 1946, con l'apertura del prolungamento della ferrovia da Castellammare di Stabia a Sorrento, la tranvia diviene un inutile doppione e lo stesso giorno venne chiusa.

Tracciato [modifica]

Il tram a piazza Municipio a Castellammare di Stabia
La tranvia partiva originariamente dalla stazione FS di Castellammare di Stabia, dove era posto un doppio binario, per proseguire poi lungo il centro cittadino, fino all'altezza dell'ingresso dei cantieri navali e della Antiche Terme, dove il binario diventava singolo[3].
Si proseguiva per la parte bassa della frazione di Pozzano, dov'era posto un raddoppio dei binari per permettere gli incroci, e poi verso lo stabilimento termale-balneare dello Scrajo: oltre ad un nuovo raddoppio della linea, il percorso era particolarmente tortuoso a causa delle numerose curve. La tranvia transitava poi per il centro di Vico Equense, passava sul ponte di Seiano e proseguiva verso la frazione di Montechiaro: durante questo tragitto si incontravano quattro punti per l'incrocio delle automotrici. Iniziava cosi il tratto più difficoltoso della linea, che, tramite una stretta strada e curve a bassissimo raggio, superava il costone roccioso che conduceva a Meta, la cui fermata con raddoppio era posta dinanzi alla basilica di Santa Maria del Lauro[3].
Il tragitto diventava da qui in avanti pianeggiate e dopo aver superato il deposito vetture, attraversava i comuni di Piano di Sorrento e Sant'Agnello, dove erano posti altri posti di raddoppio, fino a giungere a Sorrento: la tranvia terminava, dopo aver attraversato tutto il centro cittadino, in località Ponte Parsano, a doppio binario. L'intera tranvia aveva una lunghezza di 19,4 km e nel corso della sua storia non ha mai subito variazioni di percorso, eccetto lo spostamento del capolinea di Castellammare, nel 1934, dalla stazione FS a quella SFSM: per consentire questo movimento fu realizzato un raccordo di pochissimi metri, in quanto la tranvia passava nei pressi della ferrovia[3].


Percorso 



Il tram in sede propria lungo quella che oggi è la statale 145 Sorrentina

 

Materiale rotabile 

Un'automotrice della tranvie sorrentine
Il parco rotabile della tranvia era dotato di sedici elettromotrici e nove rimorchiate, che vennero ordinate il 10 ottobre 1903 all'industria Siemens di Berlino: avevano una lunghezza di 9,60 metri ed equipaggiate con motore Siemens. Le casse era in legno e divise in prima e seconda classe per un totale di 22 posti a sedere: in seguito al rinnovamento del 1934 la prima classe fu eliminata ed i posti a sedere aumentati a 24; le vetture erano dotate di otto finestrini su ogni lato, oltre ad un lucernaio superiore, lungo quanto il vano passeggeri. La colorazione era giallo paglierino e rosso, con la parte frontale color nocciola, mentre a partire dagli anni '20 si passò al verde. Delle nove rimorchiate, sei erano destinate al trasporto dei viaggiatori, mentre le altre tre erano utilizzate come bagagliaio.












Si mò se mette a chiovere…

















‘O cane sta ‘bbaianno
‘a quanno s’è scetato.
Tutt’a nuttata
nun ha fatto ato
ca se lamentà.
‘O tiempo è truculo,
nun sape c’adda fa.

Si mò se mette a chiovere
chi sa quant’acqua vene.
E’ na semmana ca tene,
ch’’e nuvule s’ammassano
comme a matasse ‘e lana
dint’a na cesta
ca nun te funno.

Pe quanto è gruoso ‘o munno
stu muorzo ‘e cielo pare
comme a nu pagliaro
ca sta pe piglià fuoco
tante so’ ‘e lampe ‘ncielo
e tante songo ‘ e truone
ca metteno paura.

Na jatta muro muro
sta guadagnanno ‘a casa
‘a do’ aiesce e trase
quanno vo’ essa
taanto ‘a patrona ‘o stesso
pe nun se ‘nfonnere
fa comme a essa

e muro muro
torna ‘o sicuro
pe nu mastrillo
ca nun teneva a casa
e pe na scarda ‘e caso
ca si nn’attira ‘o sorece
doppo s’’a po’ magnà.

Giuvanne ca fatica
torne sultanto a sera
e vvote cu na cera
ch’è meglio nun parlà
tanta ‘a mugliera
sape chello ca vò,
‘o sape accuntentà.

Ostia Lido,            30 sett. 2012




E' inserita nella raccolta "TIPI"
presente in questo blog

sabato 29 settembre 2012

JUVE STABIA - PADOVA : 1 / 0


Il Menti di Castellammare di Stabia


“La Juve Stabia affonda il Padova” non sembra il titolo per festeggiare la prima vittoria della squadra di casa che ci ha provato e riprovato pur essendo in superiorità numerica dal 25° del primo tempo rischiando più di una volta di essere trafitta dagli avversari che dopo l’espulsione del portiere sembravano sbandati ma non ancora sconfitti.

Soltanto al 64° i padroni di casa sono riusciti nell’impresa e anche se all’87° hanno sfiorato il raddoppio hanno avuto dalla loro qualche santo patrono se sono riusciti a conseguire la prima vittoria.

La squadra avversaria non si è arresa facilmente e ha prodotto diverse occasioni da goal che per un soffio non sono andate a segno.

Far di necessità virtù senza disprezzare un risultato che dovrebbe costituire un "consuolo" per i propositi fatti dal capitano sperando che al più presto ritornino in campo giocatori con le idee chiare e con propositi da veri professionisti.

A distanza di tanti anni non ho ancora capito cosa vogliono dimostrare quelli che scesi in campo per giocare fanno di tutto per farci espellere per le maniere che hanno.
Se fossi il padrone della squadra li manderei via alla seconda espulsione. 

venerdì 28 settembre 2012

Asfardista



Non so quanti hanno ancora memoria di questo mestiere che è simile a quello della pavimentazione delle strade per renderle più scorrevoli, ma diverso nel modo di eseguire il lavoro per le fasi operative  che richiedevano uno svolgimento diverso da svolgere in luogo ad incominciare dalla frantumazioni dei pani di asfalto, dalla cottura in loco del prodotto da stendere sulle superfici da impermeabilizzare per arrivare alla preparazione e pulizia delle superfici da coprire dalle quali eliminare le asperità eventuali fino all'approntamento  di squarci nell’intonaco del parapetto per verticalizzarne una parte in modo da evitare infiltrazioni sulle superfici perimetrali in caso di piogge torrenziali.






Nell'immagine si vede la caldaia e sulla destra i pani a sinistra la posa in opera del prodotto cotto per essere disteso.


In questa immagine si noti la pochezza delle attrezzature e la precarietà della difesa  della salute.

Anche l’impasto era diverso nella consistenza da quello che normalmente viene steso sulle sedi stradali direttamente sul fondo o asportato e poi riportato dopo essere stato preparato in un luogo a parte per recuperare gli inerti ormai esausti e in qualche caso in fase di disgregamento.
Il conglomerato bituminoso artificiale ottenuto miscelando opportune quantità di inerti grossi (ghiaia), fini (sabbia e filler) e bitume realizzato con opportuni dosaggi  degli inerti viene depositato direttamente sul fondo naturale della strada o sullo spessore residuo del manto dal quale è stato recuperato. La diversa dimensione degli inerti ha portato a realizzare strade a più veloce percorrenza (vedi  autostrada  o superstrada)  che consentono un drenaggio più veloce della pioggia diminuendo così il volume dell’acqua alzata dagli pneumatici e permettono di recuperare una migliore visibilità della strada
L’asfalto è presente nella nostra vita fin dall’antichità. Se ne estraeva per distillazione un olio che veniva utilizzato per rendere impermeabile il legno contro l’azione dei parassiti, come lubrificante e perfino come medicamento sugli uomini e sugli animali.
Incominciò ad essere utilizzato come materiale da costruzione solamente nel secolo XVIII per pavimentare strade e marciapiedi e per rendere impermeabili i lastrici solai.
Per poterlo utilizzare deve essere fuso in una caldaia con l’aggiunta di bitume, ma ancor prima bisogna  frantumare i pani in pezzi minuti per farli sciogliere rapidamente.
Al prodotto andava aggiunta della sabbia di grossezza variabile a secondo dell’impiego che se ne doveva fare.
Quando la massa era stata ben amalgamata e resa fluida veniva versata sulla superficie da coprire. L’asfaltista provvedeva a distenderlo con una stecca di ferro spostandolo  tenendo conto dello spesso che doveva conservare una volta che si era raffreddato. Per renderlo compatto nella fase finale veniva trascinata su di esso un rullo di pietra l cui superficie veniva bagnata per evitare che nella fase di rotolamento asportasse parte del materiale ancora caldo.

Al termine del lavoro sulla superficie veniva cosparsa della polvere di calce che doveva asciugare quella parte di vapore che il prodotto rilasciava. A superficie consolidata venivano effettuata su di essa saggi per misurare lo spessore del materiale messo in opera per garantire al committente il regolare svolgimento dell’incarico sia per i materiali utilizzati sia per lo spessore richiesto che, se ben ricordo non doveva mai essere inferiore a un cm con le tolleranze ammesse.

Al termine del collaudo la superficie asfaltata veniva verniciata di bianco o con calce spenta o con bianco di zinco per ridurre gli effetti del calore del sole  sull’asfalto.

L’unica esperienza avuta fu quando avevo 15 anni e forte del tempo libero che la promozione mi aveva regalato avevo chiesto ai miei genitori di potermi trovare un lavoretto da fare. Mi appiopparano al marito di mia zia che per mestiere faceva l’asfaltista e la mattina dopo dovetti alzarmi da subito alle cinque per raggiungerlo sotto casa dove lo trovai che aveva caricato sul camion, assieme al fratello, la caldaia dove l’asfalto veniva sciolto, i pani di asfalto che sembravano delle grosse caramelle golia, la sabbia di fiume e gli atri attrezzi più piccoli come una cucchiaia da muratore, una scalpellina o “male e peggio” dei righelli quadrati di ferro di spessore minimo di un centimetro per regolare lo spessore del manto che veniva disteso, cantarelle per il trasporto del materiale dalla caldaia al terrazzo, un paranco a mano, stracci, legna da ardere ed altro.

Il viaggio a tre nella cabina del camion fino a Sorrento fu quanto meno esilarante per le stupidaggini che i due fratelli si scambiavano. Mostravano di saper stare al gioco anche se il più grande, il marito di mia zia, era il titolare della ditta e l’altro era il fratello minore. Il battibecco andò avanti quasi tutta la giornata che per certi versi fu piacevole anche se il mio ruolo era minore, mi avevano messo a guardare il fuoco dopo averlo acceso. La caldaia che era costituita da due sezioni cilindriche di cui la prima faceva da focolare e quella sovrastante d caldaia, era stata posta davanti alla casa e mentre il fuoco si ravvivava, era stata riempita di una buona quantità di bitume e di pezzi di asfalto che il fratello minore incominciò a frantumare con una mazza di ferro da 10 chili. I primi colpi mi avevano fatto sobbalzare, come i primi incarichi affrontati alla garibaldina, mi avevano subito stancato. Mi ripresi dopo la colazione al bar della piazza.

Il terrazzo da ricoprire non era un’area molto grande. L’asfalto vecchio che, all’epoca, non veniva recuperato era stato già rimosso e portato via. L’intonaco era stato eliminato nel punto di attacco con la copertura per farvi arrivare  l’asfalto e una mano di bitume alla maniera dei verticali che oggi si realizzano con la guaina catramata e quando le prime cantarelle incominciarono ad essere tirate su il lavoro diventò frenetico e senza interruzioni. Fui il solo a mezzo giorno a consumare la merenda che avevo portato da casa. I due fratelli continuarono il loro lavoro senza interruzione. Terminarono alle cinque del pomeriggio. Tornammo il giorno dopo per ripassare il rullo per compattare in maniera più tenace la il materiale steso che dimostro di non avere cedimenti. La superficie venne nuovamente cosparsa di polvere di calce che si aggiunse a quella precedente che si era bene ancorata alla superficie catramata e ci fu una prima consegna al committente. Ci ritornarono i fratelli Esposito per il collaudo finale e per l’imbiancatura dell’asfaltatura. Il mio ingaggio era finito dopo qualche giorno perché con l’età che avevo non potevo far parte della forza lavoro neppure come apprendista. Nel tipo di attività erano presenti rischi che il DPR 303/1956 definiva già allora cancerogeni e soggetti periodicamente a controlli sanitari.

La scusa fu buona per non tenermi a bada come fu detto a mio padre e ritornai nuovamente a girovagare con la testa fra le nuvole ora sul lungo mare ora su altri percorsi che mi hanno insegnato cose che all’epoca non comprendevo, ma col tempo sono ritornate utili come esperienze di vita che, a volte, mi trovo a raccontare come questa che ho appena finita di scrivere. 

Guaine bituminose
Nota bene. 

Nel tempo e con nuovi ritrovati tecnici il mestiere ha assunto connotazioni diverse di modo che per impermeabilizzare un terrazzo non è più necessario effettuare le operazioni che ho in precedenza descritte. 

La disponibilità di prodotti come le membrane bituminose permettono di fare lo stesso lavoro in minor tempo con risultati che forniscono garanzie di durata nelle più svariate condizioni di utilizzo  ad incominciare dai passi carrabili o pedonabili o alle superfici destinate solamente alla copertura del fabbricato, basta che la membrana contenga un minimo di 51% di matrice bituminosa e uno spessore non inferiore ai 3 mm che può essere posata in aderenza, semi-aderenza o indipendenza con l’impiego di un’apposita fiamma su una superficie perfettamente asciutta, priva di asperità e polvere per una perfetta posa in opera.


E’ inutile dire che anche questa tecnica porta con sé rischi lavorativi che comportano per l’operatore l’adozione di dispositivi di protezione individuali per la loro riduzione al minimo e accertamenti sanitari periodici per accertare l’idoneità del lavoratore alla mansione e danni tumorali nel tempo.


mercoledì 26 settembre 2012

Leggendo Neruda




Leggendo Neruda
mi sono accorto che non ho pazienza,
non ce la faccio a stare senza te,
l’essenza delle cose che mi stanno intorno
non m’inganna.
Metafore
che non hanno la funzione
di dare il tempo per aspettare
il giorno che ci rivedremo,
allungano la pena
che mi lacera come un coltello
che ha denti disuguali.
Quando una donna
ti penetra nel cuore
é come il sonno che ti viene meno,
come il desiderio d’amore
che non si appaga
neppure a lavorarci ogni giorno
per trovarne l’acme o il dolore,
un bacio che non trova più il respiro
o come mani che accendono l’ardore
senza bruciarsi senza mai sentire
il tremore o l’abbandono.
Neppure il mare che lacera i pensieri
onda su onda senza addormentarsi
al canto di una nenia 
mi salva dal desiderio di averti
dentro l’anima come un rosario almeno
con la frescura che danno le parole
quando ripiegano sul sussurrato appena.
Cerco di confondermi e cercare
quell’aria tiepida che fa sognare a volte
pensando di avere appena colte
le tue fattezze dal giorno che si appressa.
Che dolce irrequietezza che ancor mi porti !



Ostia lido,       26/09/2012


Inserita nella raccolta
“L’Equilibrista…poesie dal quotidiano”

martedì 25 settembre 2012

GROSSETO - JUVE STABIA : 2 - 2

Grosseto - Stadio Zecchini


GROSSETO (4-2-3-1): Bremec; Antonazzo, Padella, Olivi (18′ st Iorio), Calderoni; Crimi, Jadid; Bonanni, Curiale, Foglio (14′ st Quadrini); Lupoli (41′ st Lanzafame ). In panchina: Lanni, Obodo, Donati, Delvecchio.
Allenatore: Moriero

JUVE STABIA (4-1-4-1): Seculin; Baldanzeddu, Mezavilla, Murolo, Gorzegno; Genevier (16′ st Agyei); Caserta, Jiday (7′ st Figliomeni), Acosty (32′ st Danilevicius) Erpen; Mbakogu. In panchina: Nocchi, Bruno, Vinci, Improta.
Allenatore: Isetto

Arbitro: Merchiori
Reti: 10’pt Foglio (G), 36’pt Gorzegno (JS), 14’st Acosty (JS), 41’st Lupoli (G)

Ammoniti: Antonazzo, Calderoni (G), Jidayi, Mezavilla (JS), Crimi (G), Figliomeni, Gorzegno (JS)

Espulso: Gorzegno (JS)

Spettatori: 1003 abbonati + 535 paganti, per un incasso di 20.177 euro.

Una partita che ha cercato di dare concretezza alle dichiarazioni di intenti fatte dal capitano della Juve Stabia qualche giorno fa.

A mio avviso non sono i moduli di gioco a modificare l’atteggiamento dei giocatori in campo, è qualcosa che tutti gli schieramenti possibili dovrebbero avere e non hanno che prima di tutto è la convinzione di far parte della squadra nella quale si trovano a giocare, quella di possedere la capacità di amministrare la palla come fanno i giocolieri e quella di divertirsi giocando.

Il gioco della palla non è un mestiere che si risolve amministrando tre o quattro palle per partita o segnando qua e là qualche rete. Il gioco giocato deve essere un’arte e non una pratica per sgranchire le gambe o per rimediare uno stipendio o ancora peggio per fare mostra della propria immagine per raccattare tutto quello che è possibile per una vita più dignitosa.

I moduli devono essere provati e riprovati in tutti i ruoli che possono essere ricoperti, la fatica sorpassata e messa nel dimenticatoio con i turni necessari a smaltirla e via discorrendo.

Non vogliamo inventarci niente, ma un buon medico è quello che ha studiato tutte le nozioni che la scienza gli ha messo davanti, che non è mai mancato a una lezione, che non si è mai avvilito nel chiedere un supplemento di spiegazione, ecc. ecc.

La partita di ieri è sembrata diversa e fa sperare anche se i sintomi che hanno portato al magro bottino ci sono ancora tutti, anche se la squadra non è ancora presente in campo qualunque sia la formazione. Soltanto la prossima partita col Padova potrà dirci se il risultato col Grosseto è da considerarsi positivo o una situazione di ristagno.

Comunque vada non è possibile assistere già dalle prime partite ad una agonia che si annuncia lenta ed irreversibile se non sarà trovata la cura giusta per dare una sveglia agli attuali arruolati che invece dimostrano proprio di non volerne sapere.

lunedì 24 settembre 2012

Juve Stabia - Varese : 1 - 2




Questa è la classifica che la Juve Stabia ci consegna dopo la quinta giornata. Due punti per altrettanti pareggi e tre sconfitte, a parer mio, senza scusanti.

Peggio della Juve Stabia apparentemente l'Empoli e il Grosseto che hanno recuperato il primo sette punti di penalità ed è passato in fase positiva e il secondo che le ha azzerate. A conti fatti siamo in zona retrocessione.

L'anno scorso disperavo per una questione di tradizione, ma quest'anno il ritorno in serie C è assicurato. Eppure i valori messi in campo sono di tutto rispetto. Bisogna capire perché non riescono o non vogliono giocare.
L'allenatore è la prima persona della società a dovercelo spiegare. E' vero che non sempre si può vincere, ma fino ad adesso non abbiamo incontrato i primi della classe anche se il Livorno é secondo in classifica e il Varese dopo averci battuto è arrivato in quarta posizione.


Ancora una partita che sembra alla portata di una squadra temuta e rispettata, che cerca di raggiungere il risultato pieno ma non ci riesce per la quinta volta. A nostro avviso la squadra non vince perché è la prima a non essere convinta dei propri mezzi per cui quello che riesce ad afferrare le sfugge sistematicamente di mano senza riuscire a trovare una pronta reazione per metterci riparo.


L’appello rivolto dal capitano Donovan Maury  fa percepire tutta l’impotenza dei giocatori di fronte ai risultati fin qui conseguiti.Oltre che un allenatore servirebbe uno psicologo.  Contro il Grosseto sarà necessario vincere per ritrovare la certezza di un gioco che fino a oggi è a metà strada tra la noia e l’assenza di idee.


"Il capitano - ha affermato -  la squadra è un gruppo compatto, nel quale c'è un profondo senso di amicizia, probabilmente a livello di rapporti interpersonali, siamo addirittura migliorati rispetto alla scorsa stagione". 
E allora ?  La verità è quella che dice lui: pensano di giocare una partitella tra amici quando scendono in campo sottovalutando gli avversari.
 “La verità è che alla minima disattenzione veniamo puniti. I lombardi ieri non hanno fatto nulla di eccezionale, anzi, in un certo senso posso dire che la partita l'abbiamo fatta noi. Il Varese è venuto qui con tanto timore e si è rintanato nella propria metà campo. Gli uomini di Castori sono stati bravi a sfruttare i nostri e errori.
La riflessione del capitano è esatta nel chiarire le modalità della sconfitta, ma ha tralasciato  di illuminarci sui motivi che determinano le distrazioni che, per adesso,  hanno portato a tre sconfitte e a due risicati pareggi con la perdita di 13 punti e al quasi ultimo posto in classifica.
Lasciamo perdere le formazioni, tanto erano tutti amici.




giovedì 20 settembre 2012

‘O caprettaro




Era ed è ancora un pastore, dove l’attività di pascolo viene ancora svolta, che conduceva nel comune di Castellammare  le capre al pascolo .

A Castellammare, oggi, è difficile trovarne uno anche nelle località periferiche della città che confinano con i Monti Lattari, monte Coppola e le zone circostanti  dove è ancora possibile trovare del verde da brucare.

Da ragazzo ne incontravo uno che con le capre si aggirava per Privati, Mezzapietra e alle pendici di Monte Coppola, Quisisana, alle Fratte, Pozzano, alla madonna della Libera.

I pastori erano forse due o tre o forse erano elementi della stessa famiglia che pascolavano sempre le stesse capre che nel transitare per le strade nella loro transumanza lasciavano per terra per ricordo i loro escrementi che rassomigliavano a olivette nere.

Certo i prodotti che derivavano dal latte, le ricottine, le formaggette o le caciottine stagionate o meno erano saporite. Il latte di capra non era tanto in voga come adesso. Solo raramente c’era qualche medico che ne prescriveva il consumo per i bambini svezzati che non tolleravano quello delle mucche.

Di pecore nella zona manco a parlarne. La carne di capretto invece andava di moda come ancora oggi nel periodo pasquale. Era buonissima. Quanto costava non lo so, ma sicuramente qualcosa in più della carne di vaccina e di maiale tenuto conto della produzione ridotta di capretti da macellare che, a sentir dire, erano prenotati per l’anno successivo quando veniva effettuata la consegna di quello macellato. Gli estimatori erano pochi, anche perché pochi avevano soldi da spendere.

Appresso al pastore c’era sempre un cane che lo seguiva guidando le capre nel loro percorso verso i luoghi abituali delle zone da pascolo.

Il pastore vestiva pantaloni di panno pesante in grado di affrontare rovi ed arbusti che non lasciavano scampo ad indumenti leggeri, una cerata con cappuccio per affrontare la pioggia, un bastone robusto che lo aiutava nei percorsi impervi sia nella salita che nella discesa e ai piedi scarpe pesanti chiodate e provviste di suola antiscivolo come quelle da cantiere o dei militari e qualche volta delle protezioni in pelle per le gambe. Sotto la giacca che aveva delle tasche enormi in grado di ospitare generi alimentari per tutta la giornata una camicia o un maglione nel periodo invernale e sotto d’estate e d’inverno una maglia di lana come se ne vedono ancora nei films western addosso ai cow boy.

Era generalmente una persona pratica e dall’occhio attento a non perdere di vista il suo gregge anche se l’aiutante, il cane, le teneva sicuramente a bada.Comandava il tutto con un fischio o con dei richiami verbali o gutturali ai quali le capre ubbidivano prontamente.

Di poche parole, salutava quelli che conosceva ma difficilmente si fermava a scambiare quattro chiacchiere. Prendeva gli orinativi annotandoli a mente e il giorno dopo o una settimana dopo, senza nessuna differenza o scusante era puntuale.

Sapeva più cose lui che tutto il vicolo assieme. Era una memoria vivente e quelle rare volte che si fermava raccontava storie che sbalordivano sia grandi che piccoli.
Se la sapeva cavare con le bestie e con la gente e dare consigli pratici utili quasi sempre. Portava agli amici sorbe odorose in segno di stima, sorbe che raccoglieva lungo i pendi della montagna raggruppandoli a grappoli per venderli o regalarli a chi gli era simpatico o gli ritornava utile. Quando maturano le sorbe da verdi diventavano rosse e quella macchia di colore diventava l’invidia anche dei vicini.

Quando le vedevamo passare per il nostro vicolo il divertimento era quello di imitarne il verso uguale sia per le pecore che per le capre ma gutturale per le prime e nasale per le seconde.
Un giorno arrivammo a conoscere anche il maschio che in napoletano si chiama “zimbaro”. Aveva delle corna con volte accentuate ed occhi vispi che scrutavano intorno per avvertire eventuali pericoli. Il pastore ci disse di starne lontani, ma fu come un invito a molestarlo correndo il rischio di essere presi a cornate o a testate.


Come ho detto, passava raramente ma se dovessi incontrarlo, anche dopo tanti anni che non lo più rivisto lo riconoscerei subito anche se non ne ricordo il nome. Era simpatico e scherzoso. Fu lui ad insegnarmi a costruire un piffero utilizzando un ramo fresco e diritto di una pianta che cresceva nei giardini che affacciavano sulla panoramica asportandone la corteccia senza romperla con la sola forza delle mani.

mercoledì 19 settembre 2012

Templi dell'era pagana presenti a Stabia



G. Ruocco - Ruderi - Tempera su carta - cm. 18/24 -2010



I dati e i testi, citati in originale, sono stati desunti da “Della Città di Stabia, della chiesa stabiana e dei suoi vescovi” opera postuma di Monsignor Tommaso Milante del 1749, tradotta dal latino. Napoli – Pe’ tipi di Saverio Giordano – 1836.

Tempio di Ercole:
     Eretto sull’isoletta, o pietra, o scoglio che da tal tempio prese il nome; e del quale fa menzione Plinio (libro XXXIII, cap. 2) dicendo: nel territorio stabbiano, alla pietra di Ercole, ec. Ec. (pag. 10).

Tempio di Fano:
     Dedicato a Diana: nel qual luogo é attualmente edificato il Convento di San Francesco di Paola e la chiesa di S. Maria a Pozzano, la di cui storia venne scritta dal P. Serafino Ruggieri, dello stesso ordine. (pag. 12).

Tempio di Giano:
     Era stato costruito “nel luogo al presente appellato Fajano: nomenclatura derivata appunto dalle parole Fan-Iani, o sia Fanum-Iani, del che può vedersi presso Grutero ed altri. Il luogo dove trovavasi edificato, al tempo dello scrivente, era fondo appartenente  alla Mensa Vescovile mi determinai perciò a praticarvi delle ricerche… Il luogo, ove fu fabbricato, cioè nella parte superiore della collina, che sovrasta il porto era “adattissimo a denotare il patrocinio, che a questo nume concedevano i Gentili, affichè i naviganti, giungendo sani, e salvi alla patria, avessero potuto comodamente salutarlo… E  tributargli i sacrifici di riconoscenza. Egualmente siccome a lui si attribuiva, di aver piantato per la prima volta  le vigne, o almeno amplificate, per cui era detto Vitifero, quindi in quel sito eragli stato il tempo edificato. (pag. 13).
 
Tempio di Cecere:
     ...del quale fa chiara testimonianza il monumento di marmo rinvenuto nel fondo di Giacomo Certa, rimesso a Capaccio, e da lui impresso; ove si fa menzione della sacerdotessa Lassa. (Pag. 16).
 
Tempio di Giove stigio, o sia Plutone o Apollo:
     “In gran parte esiste in quel luogo, ove si dice Grotta di San Biase: perché quell’infame spelonca consacrata al nume infernale, dagli antichi cristiani venne convertita al culto divino in onore di quel S. Vescovo, e Martire”.
Una tale spelonca, secondo il costume dei Gentili di tributare a dei infernali i templi alle radice de’ monti, fu incavata al pié di una rupe, su della quale si elevava un alto colle, ed ivi a venerare il loro dio vi discendevano gl’ingannati idolatri quasi carpone per un declivio, che prendeva l’accesso da una piccola porta dalla parte meridionale del tempio; e così prostrati, e trascinandosi quasi per terra, vi si introducevano; e consultando l’oracolo, e ricevutone le risposte, per altra via sotterranea ne uscivano”. 
 “Esistono tuttavia queste porte, e queste strade; e quella pe la quale uscivano gli adoratori mette al luogo, ove si dice Ponte di S. Marco; “E da questi oracoli, e da queste risposte, che ascoltate nel tempio da coloro, che ne uscivano per la porta non sacra, vi è rimasto al luogo il nome di Carmiano; poiché esse universalmente si rendevano in verso.
Siffatta nomenclatura di Carmiano, rimasta al luogo, ha dato motivo ad alcuni, sebbene non rettamente d’inferire, che quel tempio, non già a Plutone, bensì ad Apollo fosse dedicato” (da pag. 17/18).

a cura di Gioacchino Ruocco

Già pubblicato su "Il libero ricercatore" nel 2010

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